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“Necessità della diairetica. Vita autentica e finzione giuridica”

In occasione del Congresso nazionale della Società Italiana di Filosofia Politica, il 2 dicembre terrò la relazione dal titolo “Necessità della diairetica. Vita autentica e finzione giuridica”. Il Congresso SIFP si terrà a Roma giovedì 01 dicembre (La Sapienza-Villa Mirafiori) e venerdì 02 dicembre 2022 (Scuola di Lettere, Filosofia e Lingue dell’Università Roma Tre). Maggiori informazioni qui.

Collaborazione con il Fatto Quotidiano cartaceo

Oltre alla collaborazione con l’edizione online del Fatto Quotidiano (direttore Peter Gomez), dal 29 luglio 2022 inizio a collaborare anche con l’edizione cartacea del Fatto Quotidiano (direttore Marco Travaglio). Gli articoli del blog sono linkati qui, quelli del cartaceo qui.

Contenuti Digitali per le Scienze Sociali

L’Università di Camerino organizza un Corso di Formazione professionale in Contenuti Digitali per le Scienze Sociali CDS2, di cui sono direttore.

La consapevolezza della centralità delle varie forme di comunicazione rende impossibile pensare la ricerca scientifica senza considerare come essa può essere divulgata. Il termine ‘divulgazione’, tuttavia, è spesso diventato sinonimo di ‘semplificazione’ o di ‘banalizzazione’. Il corso ha l’obiettivo di far convergere il sapere umanistico con la cultura tecnica digitale, col fine di andare in controtendenza rispetto ai fenomeni appena menzionati. Con esso infatti si intende formare figure in grado di tenere insieme complessità ed esigenza comunicativa di contenuti di alto livello che, per la loro natura, la semplificazione stravolge. L’umanista digitale ha una visione più ampia e trasversale, non solo del panorama dei media, quanto piuttosto delle strategie di design del contenuto e della realizzazione di format e canali più adeguati a un’organizzazione.

Per informazioni sul Corso, sul programma, sui contenuti, sulle iscrizioni, si veda la locandina qui sotto.

F. Tedesco, Il Principato Telematico. Diritti, democrazie e costituzioni octroyées nell’era social

Segnalo l’uscita del n. 2/2021 della rivista “La Fionda”. Contiene anche un mio saggio dal titolo “Il Principato Telematico. Diritti, democrazie e costituzioni octroyées nell’era social”. Qui sotto il sommario e l’indice della rivista. Per acquistare il numero cliccare qui

Digitalizzazione e smart working. Distruzione creativa e riqualificazione dei lavoratori. Precarietà e disoccupazione crescente. Cancellazione della piccola impresa e concentrazione oligopolista di capitali. Il Covid sta funzionando come un potente acceleratore di processi in atto da tempo, e il campo che maggiormente ne uscirà trasformato sarà quello del lavoro. Verso quale direzione? Qual è il ruolo giocato dalle élites in questo enorme processo? Quali sono i loro obiettivi? E quali modelli alternativi sarà possibile contrapporre per arginare le ferite sociali che questi immani cambiamenti stanno producendo?  
Se la post-normalità innescata dalla pandemia avesse la forma di una grande trasformazione più che di una ripartenza?
Con interventi di Alberto Avio, Savino Balzano, Aldo Barba, Sergio Bonetto, Matteo Bortolon, Maurizio Brotini, Claudia Candeloro, Anna Cavaliere, Paolo Cornetti, Mara D’Ercole, Fabrizio Denunzio, Thomas Fazi, Carlo Galli, Giulio Gisondi, Iside Gjergji, Gabriele Guzzi, Marco Marrone, Luigi Marinelli, Matteo Masi, Andrea Muratore, Chiara Patricolo, Laura Pennacchi, Umberto Romagnoli, Gianmatteo Sabatino, Pietro Salemi, Alessandro Somma, Francescomaria Tedesco, Lidia Undiemi.  

INDICE DEL NUMERO
La parabola del lavoro - Alessandro Somma 
SCENARI La Grande Tempesta - Andrea Muratore 
La trasformazione liberista tra emergenza e accelerazione - Giulio Gisondi 
Ue: dalla crisi di legittimità all'aggiustamento strategico. Vecchie e nuove agende oligarchiche - Matteo Bortolon 
La lezione tradita di Federico Caffè (e di Keynes) - Thomas Fazi 
La furia dell’attesa. Ripensare la rivoluzione del XXI secolo - Gabriele Guzzi 
Il Principato Telematico. Diritti, democrazie e costituzioni octroyées nell’era social - Francescomaria Tedesco
Il capitalismo di piattaforma. Uno sguardo geopolitico - Marco Marrone
IL FUTURO DEL LAVORO
Lavoro e politica - Carlo Galli
La liberalizzazione dei rapporti con l’estero come ostacolo alle politiche di pieno impiego - Aldo Barba
La lunga notte: Costituzione e lavoro all’ombra del Covid-19 - Pietro Salemi
Job Guarantee, chiave per uscire dalla crisi - Laura Pennacchi
Stato sociale e femminismo - Anna Cavaliere
Il sindacato nella crisi: ripartire dalla Carta dei diritti universali del lavoro? - Maurizio Brotini, Mara D’Ercole, Fabrizio Denunzio e Iside Gjergji
Il reddito di cittadinanza e il reddito minimo garantito sono dispositivi neoliberali - Alessandro Somma
Contrattazione collettiva e salario minimo: l’abbattimento della contrattazione nazionale per favorire le imprese e la strumentalità del salario minimo legale - Lidia Undiemi
Il welfare aziendale - Alberto Avio
Riduzione dell’orario di lavoro: quali proposte in tempo di pandemia? - Claudia Candeloro
Verso la normalizzazione del lavoro a distanza - Umberto Romagnoli
Sulle insidie dello smart working e sul futuro del lavoro - Savino Balzano
Storia e sfide del lavoro nel socialismo di mercato cinese - Gianmatteo Sabatino
VOCI DAI CONFLITTI
Serve una rivolta generazionale - Paolo Cornetti e Chiara Patricolo
Se questo è un lavoratore - Sergio Bonetto
Il sindacato ai tempi del Covid in Unione Europea. Intervista a Luigi Marinelli - Matteo Masi

Contro l’etica terrorista del sacrificio

Caravaggio_Ariete.jpgNel mio ultimo libro, “Eccedenza sovrana“, teorizzavo la teurgia politica. Teurgia è termine della sapienza e della Cabala ebraiche, e indica due cose: una teurgia restauratrice e una instauratrice. Teurgia indica il processo mediante il quale i fedeli, tramite la glorificazione del dio, restaurano la sua potenza o addirittura la creano.
Il tema naturalmente riguarda in filigrana l’obbligazione politica, il ‘to die for’ della sovranità. Perché obbedire, perché essere disposti a sacrificare la propria vita in nome del sovrano? La mia risposta era Barnardine, ubriacone di “Misura per misura” di Shakespeare che viene chiamato per essere ucciso e risponde “Vi prenda la peste alla gola!”. Egli non vuole morire, e non morirà. Non vuole partecipare alla pantomima teurgica, non vuole istituire né restaurare nessun semidio mortale, per usare espressioni care sia a Hobbes che a Shakespeare.
Smontare la teurgia significa mettere da parte, ‘illuministicamente’, ma direi meglio ‘ereticamente’ (poi Adriano Prosperi dice, forzando, che gli eretici furono gli antesignani dell’Illuminismo) la figura deontica del dovere. Morire per cosa, morire per chi? Mi viene in mente un passaggio del filosofo tedesco Habermas a proposito dell’obbligazione politica. Ecco quel che scrive:

“[t]here is a remarkable dissonance between the rather archaic features of the “obligation potential” shared by comrades of fate who are willing to make sacrifices, on the one hand, and the normative self-understanding of the modern constitutional state as an uncoerced association of legal consociates, on the other. The examples of military duty, compulsory taxation, and education suggest a picture of the democratic state primarily as a duty-imposing authority demanding sacrifices from its dominated subjects. This picture fits poorly with an enlightenment culture whose normative core consists in the abolition of a publicly demanded sacrificium as an element of morality. The citizens of a democratic legal state understand themselves as the authors of the law, which compels them to obedience as its addressees. Unlike morality, positive law construes duties as something secondary; they arise only from the compatibility of the rights of each with the equal rights of all” (Habermas 2001: 101)

Ecco, quando vedo la foto degli attentatori di Bruxelles, due fratelli, due figli di donna che vanno a farsi saltare in aria, budella di fuori, ossa triturate, mi chiedo: per chi stanno morendo? Se poi allargo lo sguardo intercetto l”artificiere’, che però sarebbe in fuga. Lui no, non si è fatto saltare in aria. Ecco, smontare la teurgia politica significa dire “vacci tu!”. Vuoi farlo? Fallo tu. Vuoi uccidere persone provando un dolore indicibile? Non sarò il tuo montone, il mio corno non servirà per fondare la tua città.

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Habermas, Juenger. 2001. The Postnational Constellation. Cambridge (MA), MIT Press.

[Questo articolo è apparso anche sul numero del settimanale “Scenari” del 1º aprile 2016]

Livor Massimo

dalema-640“La «rottura sentimentale» che in un’altra intervista (sempre all’ottimo Aldo Cazzullo) rimproveravi a Renzi è davvero la chiave per comprendere ciò che sta accadendo a sinistra: salvo che si è già consumata da tempo, e precisamente da quando tu, con lucidità politica e coraggio personale, hai tentato invano di modernizzare la sinistra italiana (post)comunista”. Queste parole di Fabrizio Rondolino, ovvero di uno degli ex Lothar di D’Alema, sono — assieme a tutte le altre del suo editoriale sull’Unità  — il ritratto nitido del Lider Massimo. Il più nitido. Nelle sue parole, Rondolino malignamente quanto realisticamente dice una cosa, in fondo, che noi qui traduciamo così: che D’Alema avrebbe voluto essere il Craxi che Craxi non era mai riuscito a essere, ovvero il modernizzatore che sposta l’asse della sinistra al centro per conseguire politiche ‘riformiste’ improntate all’esaltazione dell’impresa, dell’individualismo, del liberalismo. Tutto quello che, pur maldestramente, Craxi avrebbe voluto fare se non fosse annegato nella cloaca della corruzione e della febbre arraffona che caratterizzava lui, il suo clan, il suo partito. E del resto il ritratto di Tony Blair è su questo quanto mai icastico. (Naturalmente Rondolino ammanta di valore assiologicamente positivo quella svolta dalemiana).

Ma il punto è proprio questo, e spiega anche in termini psicanalitici l’amore e l’odio tra Matteo e il padre D’Alema. Perché Matteo è quello che Massimo avrebbe voluto essere e non è diventato, e D’Alema questo non può perdonarglielo. Certo anche D’Alema era figlio del suo tempo, ovvero il progetto non era ‘suo’ ma di un’intera classe dirigente che voleva fare i conti col comunismo (per usare il titolo di un bel libro di Aldo Schiavone che però mi pare andasse davvero in un altro senso, suggerendo piuttosto un ritorno a Rousseau). Ma i conti fatti male poi non tornano.

In fondo in D’Alema (e in Veltroni) si nascondeva (ma neanche tanto) il seme del renzismo. Ed è imperdonabile che Matteo sia diventato più dalemiano di D’Alema. Che chiude così la propria parabola: da Lider Massimo a Livor Massimo.

 

A cosa servono le onde gravitazionali

WCCOR_0H5HGDUR-0006-kOsB-U431508045752441bG-593x443@Corriere-Web-Sezioni“In the absence of alcohol, your living room doesn’t appear to shrink and grow repeatedly. But, in fact, it does.”.
 
La più convincente spiegazione delle onde gravitazionali che mi è capitato di leggere è questa (non la battuta, brillante, ma tutto l’articolo del New York Times).
Ho letto altri articoli, ho ascoltato l’autore di successo di un libretto di fisica spiegata agli ignoranti (come me), ma non ho capito niente. Ovvero, ho capito il fenomeno, ho capito di che si trattava, ho capito quale fosse l’origine della tesi verificata sperimentalmente ieri. Ma nessuno mi aveva detto con chiarezza a cosa servisse questa scoperta. Ecco: a niente. O meglio: ciò che imbarazza il mondo scientifico, scioccamente e ingiustamente, è il fatto che questa ricerca e questa scoperta (o meglio questa prova), per quanto ne capisco, è ciò che in ambiente accademico si chiamerebbe puramente ‘curiosity driven’. Una ricerca che non ha applicazioni pratiche immediate, su cui però sono stati spesi un sacco di soldi, e per giunta per verificare un’ipotesi formulata da Einstein cent’anni fa. Ecco cos’è la ricerca. Questa ricerca spiega non solo da dove, con ogni probabilità, veniamo (o meglio, come veniamo dal posto da cui veniamo); essa spiega che cos’è l’uomo, questo animale simbolico alla ricerca del proprio posto nel mondo. Anzi nel cosmo. Ed è per questo che non bisogna vergognarsi di dire che questa ricerca non serve a niente, se non a dire che l’uomo è una bestia curiosa. [*]
[*] Fisici che leggete, se le cose non stanno così, lasciatemi nell’illusione poetica…

Kant nell’harem: Fatema Mernissi

mernissi.jpgFatema Mernissi era di una grande, esotica, ostentata bellezza orientale. Il suo naso aquilino e gli occhi sempre bistrati, i suoi abiti di foggia tradizionale e allo stesso tempo cosmopolita,  ne facevano un simbolo orgoglioso dell’inversione dello stigma orientalizzante con cui gli occidentali guardano la donna ‘esotica’. Infatti, sebbene Mernissi potesse a prima vista incarnare esteticamente lo stereotipo della donna orientale, il suo lavoro era tutto teso a sovvertire questo schema, a ribaltare il cliché della donna bella e orientale, dunque sottomessa e muta. La sua figura sembrava un’affermazione di conciliabilità, al di là di ogni stereotipo, tra impegno, intelligenza, coraggio, apertura, e tradizione. Ma una tradizione rivisitata, consapevole delle proprie ibridazioni. Si può essere orientali, belle e intelligenti, dunque. Proprio a questi temi è dedicato quello che da molti viene considerato il suo capolavoro, Scheherazade goes West, or: The European Harem, pubblicato nel 200o e meritoriamente tradotto da Giunti col titolo L’harem e l’OccidenteMernissi ha sostenuto in quel libro tesi interessanti e provocatorie, che hanno avuto eco anche nel dibattito italiano, e che hanno fatto storcere il naso a più di una femminista. La tesi di fondo è che gli occidentali dovrebbero guardare a casa loro, ovvero dovrebbero smetterla di pensare che l’oppressione (della donna) sia sempre affare di ‘altri’ e che l’Occidente sia il luogo dei diritti incarnati e dell’emancipazione. In particolare, Mernissi racconta la propria esperienza di cliente di un grande magazzino americano: voleva comprarsi una gonna di cotone, ma il commesso le disse che aveva fianchi troppo larghi per una taglia 42: “Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine della bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna, e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti. […] Mi resi conto per la prima volta che la taglia 42 è forse una restrizione ancora più violenta del velo musulmano” (F. Mernissi, L’harem e l’Occidente, Giunti, Firenze 2006, pp. 163 e 166). Questa tesi è arrivata in Occidente come uno schiaffo potente, poiché Mernissi stava sostenendo, proprio negli anni in cui la società occidentale si interrogava sulla libertà delle donne musulmane (e le bombe degli anni successivi sarebbero state benedette dallo scopo di togliere il burqa alle donne afghane), che il medico deve prima curare se stesso. Se la prendeva non solo con gli stilisti, ma con la filosofia che aveva prodotto una struttura maschilista della società e della cultura: “Di fatto, il moderno occidentale dà forza alle teorie di Immanuel Kant del XIX secolo. Le donne devono apparire belle, ovvero infantili e senza cervello” (ivi, p. 167). Ingres con Kant, insomma. Lo stesso valeva per il ‘tempo’, ovvero per la vecchiaia, usato in Occidente così come gli Ayatollah usano lo spazio in Iran: per conculcare la libertà delle donne.
La decostruzione dell’immaginario occidentale sulla donna orientale era l’obiettivo di quel libro, assieme alla messa in crisi delle pretese acritiche di un etnocentrismo occidentale tutto teso ad affermare la propria superiorità morale. Mernissi ci stava dicendo che le donne occidentali non sono così libere come gli uomini occidentali tendono ad affermare, poiché esse sono vittime di un’altra forma di violenza, che – sosteneva Mernissi – non è meno oppressiva e grave del velo. E ci invitava a riconsiderare l’illibertà delle donne orientali, ricostruendo un harem del tutto diverso da come la letteratura e le arti europee ce lo hanno consegnato. Shahrazad non era più la vittima del potere maschile, ma un’astuta oppositrice che scavava il terreno sotto i piedi al dominio maschile. Mernissi proponeva dunque delle forme di essenzialismo strategico o di sly civility, ovvero un metodo non frontale di lotta che potesse, dal di dentro, minare i pilastri del maschilismo.

Quanto queste strategie fossero e siano utili, non lo sappiamo. Sappiamo che esistono e che vengono praticate (si pensi all’inversione dello stigma di cui sono stati oggetti prima la gonna per le femministe europee e poi il velo per le musulmane francesi), e sappiamo che rischiano di perpetuare il significato simbolico dell’oppressione. Ma al di là di questo, Fatema Mernissi stava mettendo con acume e coraggio l’Occidente davanti a uno specchio che lo facesse risvegliare dalla propria dissonanza cognitiva.

La sua ricerca non si è fermata. Leggo che era una donna estremamente curiosa, e che quando El Pais le chiese, di fronte al suo interesse per Internet, se non pensava che fosse però anche uno strumento di comunicazione tra terroristi, rispose con parole che sono un trattato per affrontare il presente: “¡Pero si muchos de los terroristas provienen de Europa misma! Para mí, la cuestión es averiguar cuál es la semilla y la tierra, el caldo de cultivo que lo produce. Necesita nacer y crecer como las plantas. Lo resolveremos si sabemos por qué sucede, no con tópicos como que todos los terroristas son musulmanes”.

[Questo articolo è apparso anche sul numero del 4 dicembre di Scenari]

ONU, guerra giusta, guerra preventiva, guerra al terrore

Nel 1999 il giurista internazionalista Michael J. Glennon aveva affermato che l’intervento in Kosovo della Nato, nonostante fosse in palese violazione della Carta Onu, poneva la pietra tombale sulle “antiquate”
(ma tuttora vigenti) regole del diritto internazionale in tema di peacekeeping e peacemaking da questa stabilite.
Aveva aggiunto che della morte di tale sistema di regole – che prevedono l’intervento del Consiglio di sicurezza solo in caso di “cross-border attack” e «sotto le quali i più sanguinosi conflitti erano stati liquidati come “questioni interne” [agli Stati]» (Glennon, The New Interventionism, in Foreign Affairs, May/June 1999) – non c’era da rammaricarsi in quanto esso collide con le “moderne idee di giustizia” e risulta “fuori sincrono” poiché si attarda a considerare la violenza fra gli stati come la maggiore minaccia alla sicurezza internazionale laddove invece i più sanguinosi scontri avvengono nell’ambito della “domestic jurisdiction”. Ma aveva anche ammonito contro la pratica di rimpiazzare la vecchia struttura formale “anti-interventista” con un nuovo impianto normativo traballante, vago e creato ad hoc.
Delle difficoltà che attanagliano il sistema internazionale e l’Onu
si è accorto anche Kofi Annan, il quale nel 2003 ha istituito – col compito di suggerire soluzioni e riforme – l’High-Level Panel on Threats, Challenges and Change.
Il Panel ha emesso, nel dicembre 2004, il suo rapporto, il cui
nocciolo è il tema dell’uso della forza. In esso si afferma che la forza può
essere esercitata legalmente solo in risposta a una minaccia imminente oppure quando il Consiglio di sicurezza ne autorizzi l’uso.
Inoltre, si sostiene che essa dovrebbe essere esercitata – dagli stati o dal Consiglio – in base a cinque criteri di legittimità: se la minaccia è sufficientemente grave; se lo scopo è appropriato; se tutte le opzioni non-militari sono state esperite; se l’azione militare è proporzionata alla minaccia; se vi sono ragionevoli possibilità di successo.
Sull’ultimo numero della Policy Review, commentando queste che
sembrano quasi risposte alle sue preoccupazioni, Glennon ha affermato che le proposte dell’High- Panel sembrano postulare che il mondo sia governato da una moralità oggettiva e ignorano la realtà, recuperano la dottrina medievale della guerra giusta e tentano di istituzionalizzare l’idea che uno stato possa agire militarmente di fronte a un attacco imminente in base a una ricostruzione erronea della dottrina internazionalistica.
Secondo Glennon, la dottrina della guerra giusta riemerge nel rapporto dell’High-Level Panel quando esso, sulla base dei criteri di legittimazione dell’uso della forza presuntamente valutabili su di un piano universale, asserisce che l’intervento militare deve essere deliberato «per le giuste ragioni, moralmente», e che la forza deve essere esercitata solo quando la «buona coscienza» lo permetta. E, ancora, quando esso afferma che occorre consolidare un «atteggiamento morale» di condanna del terrorismo.Per quanto riguarda il criterio dell’imminence dell’attacco proposto dall’High-Panel, Glennon lo definisce irrealistico:
«Nessun politico assennato, sapendo che qualche stato canaglia o qualche gruppo terroristico sta preparando un attacco nucleare, suggerirebbe di star seduti ad aspettare che l’attacco diventi imminente». E tuttavia il Panel pretende di legittimare tale criterio sulla base dell’interpretazione dell’art. 51 della Carta Onu (che in realtà prevede l’uso della forza da parte di uno Stato solo in funzione auto-difensiva fino all’attivazione del Consiglio di sicurezza), e afferma che è costante norma di diritto internazionale che uno stato possa intraprendere azioni militari di fronte a un attacco imminente. Ma, sostiene Glennon, la dottrina internazionalistica ha da tempo messo in rilievo che l’art. 51 prevede l’uso della forza esclusivamente nel caso in cui uno stato debba difendersi da un attacco armato, e non nel caso in cui l’attacco sia imminente ma non attuale.
Tuttavia, l’intenzione di Glennon non è certo di richiamare al rispetto dell’art. 51, quanto di criticare la pretesa dell’Onu – espressa mediante le proposte di riforma dell’High-Panel – di rievocare a sé il monopolio dell’uso della forza militare. Tra tali proposte, tutte tese a includere mediante un’interpretazione arbitraria della Carta Onu i comportamenti degli Stati Uniti tra le attribuzioni del Consiglio di Sicurezza, figura quella di istituzionalizzare l’intervento umanitario. In altre parole, per Glennon non è criticabile l’uso della forza preventiva o l’ingerenza umanitaria, quanto il tentativo dell’Onu di porre il cappello del Consiglio di sicurezza su tali attività qualora esse siano svolte per iniziativa dei singoli stati (gli Stati Uniti, per essere precisi) al di fuori del controllo del Consiglio.
Dunque il vizio peggiore del rapporto dell’High-Level Panel è, per Glennon, di non considerare alternative – quali potrebbero essere un’alleanza fra i paesi democratici, delle integrazioni regionali rafforzate o delle “coalizioni di volenterosi” meno ad hoc – all’ormai “vecchio” modello delle Nazioni Unite che pretende di attribuire il monopolio dell’uso della forza al Consiglio di sicurezza: «L’ipotesi che vi siano altre opzioni per gestire l’uso della forza che possano funzionare meglio del Consiglio di sicurezza è semplicemente non all’ordine del giorno » dell’High-Level Panel.In conclusione, per un realista come Glennon elaborare modelli di pacifismo istituzionale (o di gestione dell’uso della forza) che passino attraverso la riforma dell’Onu è una via velleitaria e idealistica al raggiungimento di un ordine internazionale più saldo.
Una via tanto più velleitaria in quanto fondata su un’erronea lettura
delle vicende storiche: «Nel corso del diciottesimo secolo, la pace in Europa è stata mantenuta sulla base dell’equilibrio di potenza, più che attraverso istituzioni legaliste». Per Glennon l’eccentricità della Carta dell’Onu – la sua incapacità di approntare strumenti d’interpretazione e trasformazione del contesto internazionale – è ormai un dato di fatto ampiamente condiviso dalla dottrina e dalle diplomazie di buona parte del globo. Ciò che non è condiviso, per Glennon, è l’idealismo di un progetto di riforma che tenti di recuperare centralità a delle Nazioni Unite sempre meno legittimate. E – citando Henry Cabot Lodge – «vi è un grave pericolo in un idealismo non condiviso».

Vespa, i Casamonica e i giornalisti-pizzardoni

natale_del_pizzardone1-llcd04wpgp01jhmvt8ac3zzj83678y5e4vxbfl8ml4Ora, io non ho visto l’intervista di Bruno Vespa ai Casamonica. Seguo però su Facebook la polemica tra chi grida ‘vergogna’ e chi dice ‘ha fatto il suo mestiere’. A parte che bisognerebbe capire che mestiere fa il conduttore di una trasmissione che benevolmente potremmo definire di ‘infotainment’, mi stupiscono i commenti dei difensori di Vespa: “ha fatto bene, come quando tizio intervistò caio…”. Come se il punto fosse invitare un personaggio controverso o addirittura dei mafiosi, mettergli un microfono davanti. E invece il punto non è quello. Il punto è il ‘come’. Che domande gli fai, cosa gli chiedi, come li tratti. Gli sorridi? Ammicchi? Gigioneggi? Perché certo che si può intervistare anche il peggiore dei criminali. Ma se è tale, allora bisogna che l’intervista sia condotta con l’etica professionale che e propria del giornalista: fare domande ‘scomode’, cercare di capire la verità. Franca Leosini intervista criminali di ogni risma. Eppure è spietatamente fredda, chirurgica, secca. Da qualche fotogramma circolato sui giornali vedo invece il giornalista di punta della Rai ritratto nel suo sorriso sornione, quello che negli anni ha riservato benevolmente ai vari potenti che sono passati nel suo salotto. Potenti a cui non ha mai torto un capello, a cui non ha chiesto mai niente di scomodo. Il punto è tutto lì: non chi si intervista, ma cosa gli si chiede. E, ormai, anche dove lo si fa sedere, che luci e che vestiti.

Ma questo problema riguarda solo Bruno Vespa? Non direi, poiché ormai qualsiasi ‘salotto televisivo’ (ma in quale dei vostri salotti si invita gente tanto cafona che strilla e strepita e mente, come si fa nei talk show?) è frequentato da una fauna di dichiaranti senza contraddittorio giornalistico. In nessun programma italiano, se non forse dal Santoro dei bei tempi, un giornalista e in grado di controbattere alle dichiarazioni a ruota libera dell’ospite potente di turno. Del resto non dev’essere facile tanti personaggi potenzialmente bugiardi e fare le bucce a tutti, me ne rendo conto. Ma allora perché non fare un altro mestiere? O meglio, perché non lasciare il microfono aperto eliminando l’imbarazzante presenza di un giornalista ridotto a pizzardone?