Una modesta proposta (e la reazione di Roars)

Leonardo_NatureQualche giorno fa, la stampa propalava l’ennesimo segnale che decreta la totale mancanza di futuro per molti dei precari dell’università. Sul Sole24Ore usciva infatti un articolo icasticamente intitolato La cattedra universitaria miraggio per 20mila aspiranti professori, nel quale si spiegava che il numero esorbitante di abilitati nelle prime due tornate non troverà, verosimilmente, alcuna collocazione nei ruoli per i quali è stato abilitato.

Preso dallo sconforto, formulavo (tra il serio e l’amaramente faceto), sulla pagina Facebook di Roars, una ‘modesta proposta’:

penso che gli strutturati potrebbero tranquillamente saltare un turno, se è necessario, per fare spazio alla stabilizzazione dei precari.

Apriti cielo! 16 ‘mi piace’ e moltissimi commenti (più di 150, mi pare). Roars del resto è un ‘luogo’ virtuale di discussione delle problematiche accademiche molto vivo e frequentato. Naturalmente, i primi a saltare sulla sedia sono stati gli strutturati. Come se avessi proposto la loro espulsione dall’università, la sottrazione dello stipendio, l’asportazione di una libbra di carne dai lombi. Niente di tutto questo. Il mio ragionamento era semplicissimo: saltare un turno, ovvero per l’associato aspettare un turno prima di diventare ordinario, per il ricercatore a tempo indeterminato aspettare un turno prima di diventare associato, etc. Il tutto a favore della stabilizzazione, da non intendersi come ope legis ma come possibilità di concorrere con procedure aperte e libere, dei precari. Aspettare un turno, non ‘non fare più progressioni di carriera’. Aspettare un turno ovvero: le risorse per le progressioni investiamole sul precariato.

E’ normale che gli strutturati si siano risentiti, certo. Ormai vige un cinismo piuttosto diffuso, per cui chi ha vuole ancora di più, e non importa se dietro c’è gente che fa fatica, che aspetta invano gli anni che passano per poter fare anche solo un progetto di vita e poter programmare il proprio futuro. Ma, ripeto, la proposta era tra il serio e l’amaro faceto, poiché è del tutto evidente che non si saprebbe neanche come metterla in termini giuridici, per dire (e non solo in quelli). Dunque era chiaramente una ‘provocazione’, uno stimolo alla discussione circa le ingiustizie nell’università. Ma non una boutade.

Avevo già avvertito, seguendo Roars, una certa impostazione ideologica. Roars non critica Anvur perché è — semplifico — bibliometrica. Roars critica Anvur perché non è seriamente bibliometrica. Insomma, Roars è il fratello più sveglio di Anvur. Ma non basta: Roars si è ritagliata nel tempo il ruolo di Anti-Defamation League dell’università. E, segnatamente, come paladina nella battaglia volta a rintuzzare tutta quella pubblicistica, ormai copiosa, sull’università ‘truccata’. Il ragionamento di Roars è che la pubblicistica in questione è spazzatura, e che l’università italiana funziona, e funziona bene. E risponde a questa pubblicistica più o  meno con la tesi della ‘finestra rotta’. In altri termini, questa pubblicistica sarebbe artatamente finalizzata a screditare l’università al fine di indebolirla ulteriormente, di tagliare ancora i suoi fondi, etc.

Orbene, è chiaro che si tratta di una posizione grottesca (che altrettanto grottescamente potrebbe essere rovesciata: chi ha interesse a svolgere la funzione di Anti-Defamation League dell’università nonostante si sappia come stanno le cose? A chi giova?). Se c’è qualche grande vecchio che coordina una operazione del genere muovendo decine di burattini che sui grandi giornali, anche progressisti, ‘infamano’ l’università dei cooptati dicendo che i concorsi sono tutti truccati, è davvero il complotto del secolo. Mi pare invece che le cose stiano diversamente. E che esse stiano nel senso che quella pubblicistica descrive. Chiunque non abbia un padrino accademico sa, sulla propria pelle, come stanno le cose. Anche tutti gli altri naturalmente lo sanno, ma chiudono un occhio, anzi due.

Naturalmente, questo atteggiamento da ayatollah dell’accademia si è scatenato anche contro il mio post. I difensori della bontà e onestà dell’accademia italiana si sono a un certo punto palesati calando la solita (presunta) briscola dei ‘dati’, cosa che fa parte dell’apparato ideologico un po’ naif di cui sopra. Nello specifico, Giuseppe De Nicolao è intervenuto per dire che non è vero che negli anni passati il reclutamento abbia favorito le progressioni nelle posizioni apicali dell’accademia. Ho rimproverato a De Nicolao l’uso ideologico di questa retorica dei ‘dati’, da calare come assi nella discussione per ‘vincerla’ e zittire l’interlocutore. Gliel’ho fatto rilevare perché lo studio citato si fermava al 2013, dunque escludendo dalla rilevazione proprio quella massa di abilitati (20mila!) del cui destino si stava discutendo. Scrivevo a De Nicolao:

Lei non è nuovo all’uso di questa ideologia dei numeri come adamantine verità calate dal cielo, cosa che trovo epistemologicamente un pelino traballante.

Il professore si risentiva, e partiva con la sequela di dati, invero un po’ buttati lì a caso, per dimostrare le proprie tesi. Avevo già notato questo atteggiamento del nostro eroe, descritto proprio in questi giorni sarcasticamente da Corrado Zunino della Repubblica come “l’ineffabile professore, Il segugio della ricerca, l’investigatore che investiga su chi investiga” in un articolo che ne mette in luce molto bene il bizzarro modus operandi. Infatti De Nicolao, in una discussione precedente, per controbbattere alla tesi secondo cui i concorsi italiani sono pilotati, argomentava in questi termini: se i concorsi fossero pilotati, la ricerca italiana (in termini di produttività: rieccoci ai numeri, ai dati, alla ‘metrica’ un tanto al chilo) non sarebbe così buona, ovvero in linea con quella europea. Avevo già sbugiardato il nostro segugio dell’ADL accademica, poiché il dato portato da De Nicolao con una tracotanza da positivista che cala l’asso incontrovertibile dei bruti ‘fatti’ era — udite udite! — un dato aggregato. Ebbene sì: il dato che avrebbe dovuto dimostrare la buona produttività degli accademici incardinati (almeno l’intento era quello), in realtà era un dato che non forniva elementi circa la produttività degli strutturati, ma di tutti gli universitari, precari compresi. Dunque, ragionavo, se i precari sono più di 2 a 1 rispetto agli strutturati, come si fa a dire che la produttività scientifica degli strutturati è di livello europeo? Se tanto mi dà tanto — aggiungevo al solo fine di dimostrare che la tesi del segugio era francamente senza alcun fondamento — si potrebbe dire che la baracca in realtà la reggono proprio i precari.

Non pago di questa prima figuraccia, De Nicolao è tornato sul luogo del delitto. Infatti, quando gli ho fatto notare questo uso dei ‘dati’, ha cercato di tamporare scrivendo che in realtà i sempre insindacabili dati dimostrerebbero che la produttività non scema affatto al progredire della carriera, e che semmai sale per gli ordinari. E ha citato un paper e ancora altri dati in esso contenuti. Il paper è: Giovanni Abramo • Ciriaco Andrea D’Angelo • Flavia Di Costa, Research productivity: Are higher academic ranks more productive than lower ones? Scientometrics (2011) 88:915–928 DOI 10.1007/s11192-011-0426-6.

Peccato che però chiunque possa verificare anche solo leggendone l’abstract che questo paper, che prende in considerazione peraltro un lasso di tempo di pochi anni (perché, poi, solo quel lasso lì, dal 2004 al 2008? Qual è la ragione di questa selezione?), non si occupi affatto della produttività dei precari e della sua relazione con la produttività degli strutturati:

This work analyses the links between individual research performance and academic rank. A typical bibliometric methodology is used to study the performance of all Italian university researchers active in the hard sciences, for the period 2004—2008. The objective is to characterize the performance of the ranks of full (FPs), associate and assistant professors (APs), along various dimensions, in order to verify the existence of performance differences among the ranks in general and for single disciplines.

In buona sostanza, lo studio si occupa solo degli strutturati (ordinari, associati, ricercatori) e nello specifico nel settore delle cosiddette scienze dure. Secondo infortunio per De Nicolao. Seconda figuraccia.

Evidentemente il nostro non ha retto, e ha cominciato — saltando di palo in frasca — a sostenere che io non conosco la differenza tra media e mediana, prendendo spunto da un mio commento in cui in effetti parlavo erroneamente di media, per poi correggermi però autonomamente nel commento successivo usando mediana al posto dello scorretto media.

Questa discussione è andata avanti fino a notte inoltrata. Chiusa dal De Nicolao con una doppietta di commenti, l’ultimo dei quali risulta postato alla 3.02 della notte.

La mattina successiva mi sveglio, vedo i commenti di De Nicolao, cerco di rispondere e scopro di essere stato cancellato dal gruppo Roars. Non posso più controbattere. Scrivo a De Nicolao alle ore 8.36 e gli chiedo spiegazioni. Mi dice che si è trattato di una decisione collegiale della redazione. Ovvero: la redazione di Roars, collegialmente, si è riunita tra le 3.02 e le 8.36 (prima: le 8.36 è quando mi rendo conto di essere stato bannato da Roars).

Ognuno può farsi un’idea sui metodi di questo gruppo di studiosi — parlo al plurale perché se la scelta è stata, come scrive De Nicolao, collegiale… — intenti a difendere l’università dagli attacchi di chi vorrebbe — secondo loro — infangarla. Certo non un avvertimento, non una ammonizione, tanto meno una motivazione. Bannato perché?

Il comportamento gravemente scorretto di Roars, della sua redazione, di De Nicolao in questa vicenda sono il sintomo dell’intrinseca debolezza di una tesi tutta ideologica: chi critica l’università vuole infangarla per distruggerla. Non viene in mente ai nostri eroi che se già negli anni ’90 del secolo scorso prestigiose riviste pubblicavano vignette sul sistema italico di reclutamento (rappresentando uno sconsolato Leonardo da Vinci superato al concorso da un cospicuo numero di Borgia, con quello che sembrerebbe il presidente di commissione che gli dice “non ci pensare, Leonardo, andrà meglio la prossima volta”), forse qualcosa di vero in quella pubblicistica che oggi copiosamente appare c’è. E del resto che le cose stiano così, che all’università si acceda per cooptazione (violando cioè il requisito minimo di ogni concorso degno di questo nome: l’incertezza dell’esito e l’imparzialità — terzietà — del ‘giudice’), non lo dice un giornalista male informato (come spesso su Roars vengono bollati quelli che fanno la cronaca del malaffare universitario). Lo dice un autorevole giurista e accademico, Michele Ainis, il quale invita a non fare più gli ipocriti: ai ruoli dell’università si accede per cooptazione (e, aggiunge lui, è giusto che sia così, arrivando a proporre conseguentemente l’abolizione dei concorsi-farsa; un mio commento qui). Nel 1995 aveva detto la stessa cosa Gino Giugni (ricordato magari come ‘padre’ dello Statuto dei lavoratori, e ignorato quanto alla pesantissima denuncia che fece riguardo all’università), parlando di concorsi ‘sovente’ predeterminati nell’esito “secondo logiche non meritocratiche”. Gli aveva dato ragione un altro autorevole giuslavorista, Umberto Romagnoli. E il dibattito era proseguito, tanto che, scrisse Repubblica, “L’alto commissario per la prevenzione ed il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della pubblica amministrazione, Gianfranco Tatozzi, ha aperto un’indagine conoscitiva in merito al regolare svolgimento dei concorsi universitari in materia di Diritto del Lavoro. “. Non conosco i risultati di quell’indagine: si è conclusa?

Ora, la risposta di Roars a questa pubblicistica è molteplice: gente frustrata; vendicativi esplulsi dal sistema; qualcuno che vuole togliersi sassolini dalle scarpe; finestre rotte; giovani esacerbati. Peccato che in realtà vi siano fior di autorevolissimi ordinari che, ottenuto tutto in termin di carriera e giunti alla frivola età della pensione, ovvero al momento della libertà ciarliera di dire male di ciò di cui ci si è serviti tutta la vita (che coraggio, in tutti i sensi!), sparano a zero sulla corruzione accademica. Tornando a Roars, l’argomento principe sembra essere: non ci sono ‘dati’ (aridaje) su quanti siano i concorsi truccati. Quindi in sostanza si deve tacere? Tocca spiegare a Roars che forse l’unico modo per ottenere dei dati è in camera caritatis, visto che la stragrande maggioranza dei giovani accademici che subisce questi casi o è impaurita e non denuncia e non ricorre (anche perché non serve assolutamente a niente: si spendono soldi — tanti — per contestare concorsi formalmente ben ‘pensati’…), oppure con complicità avalla questo sistema, sperando che un giorno la ruota della cooptazione giri…

Per sanare i mali dell’università occorrerebbe dunque levarsi le fette di salame dagli occhi, e smetterla di ergersi a difensori del buon nome della pulzella insultata; se l’università italiana è nelle condizioni in cui è, lo è anche per il perdurante, continuo manifestarsi di fenomeni di academic inbreeding che non fanno che riprodurre strutture di saperi-poteri (le quali non sono esenti da una certa riproduzione dell’ordine sociale, of course: e lì si che bisognerebbe chiedere a chi giovi difendere un’università che riproduce le strutture di potere-sapere) ordinate secondo un sistema ormai castale di intoccabili, di sacerdoti della sapienza, di ayatollah che si risentono se gli metti davanti uno specchio e gli chiedi di guardarsi e di vedere il vero volto dell’accademia.

Slegare questo ragionamento da quello dei finanziamenti alla ricerca è assurdo. Certo, l’università soffre perché è grandemente sottofinanziata. Ma non si può pensare che fare una cosa pur necessaria come finanziare adeguatamente l’accademia risolva automaticamente il problema. Né si può dire che piano piano, con più quattrini, anche gli ‘esclusi’ perché senza padrini verranno assorbiti, stante la maggiore quantità di soldi da impiegare. Come sanno gli urbanisti, se metti più cassonetti, essi si riempiranno tutti al massimo. Insomma, se metti più soldi non è affatto detto che la loro gestione produca effetti virtuosi. Anzi, visti i precedenti, rischia di produrre, se non accompagnata a misure di contrasto alla corruzione, ulteriori danni. La potenza è niente senza il controllo, diceva uno slogan pubblicitario.

Un Commento

  1. Salvatore de Martino

    non esiste nessun piano programmatico o grande vecchio che coordina attività per abbassare il livello delle università e della scuola, più semplicemente scuole ed università di alto livello non servono ad un paese ormai arretrato come l’italia e quindi i governi non investono in questi settori. Ma d’altra parte da più di venti anni a questa parte quale è la politica dei nostri governi? Non abbiamo più piani industriali i settori strategici sono ormai abbandonati, certo la Francia e la Germania si sono comportate diversamente. Quanto all’Università certamente non è esente da difetti e migliorabile, ma certo esportiamo laureati all’estero e questo qualcosa vuol dire. Sa io credo che in generale le riforme siano necessarie in ogni campo preservando ciò che di buono c’è ma sopratutto chiarendo quale è lo scopo della riforma. Proprio oggi il collega che è al cun mi ha inviato un elenco dell’andamento dei professori ordinari di fisica nelle università dal 2002 ad oggi erano nel 2002 796 oggi sono 374. Nessuno dei ministri tra allora ed oggi ci ha mai spiegato perché dovevano essere più che dimezzati, in teoria potrebbe anche essere giusto ma in altri paese mi dicono nel frattempo sono aumentati. Tutto ciò per dire che se ci si sente sotto attacco qualche ragione c’è. Magari lei che per mestiere fa il giornalista potrebbe scrivere un bell’articolo sulla competitività delle industrie italiane. Salvatore de martino P.O. di fisica generale (in via di pensionamento tra poco 373).

    • francescomariatedesco

      Infatti anche io sostengo che non c’è nessun grande vecchio e concordo con le sue analisi.
      Purtroppo non faccio il giornalista, però, ma sono un 42enne precario della ricerca, con 3 monografie (2 Laterza, 1 Mimesis), abilitato professore associato, e nessuno, stante il sistema attuale di reclutamento, mi coopterà mai.

  2. Manuel Fantoni

    Mi sono riletto attentamente il thread e non capisco però dove stia la “seconda figuraccia” di De Nicolao. I dati portati riguardano certamente una parte del mondo accademico, ma è una parte significativa (le scienze dure) e più facilmente misurabile come produttività – in termini numerici, almeno.
    Quanto al fatto che includano solo PA, PO, RTI: è vero che non ci sono dati riguardanti i non strutturati. Però nel passaggio RTI>PA>PO non ci sono variazioni significative in termini di produttività (quindi abbiamo una curva tempo/produzione piatta); in base a questo andamento cosa possiamo supporre riguardo al periodo in cui quegli RTI, PA, PO erano anch’essi precari? Tre sono le possibilità:
    1. Erano straordinariamente più produttivi come precari, ed esattamente nel momento in cui sono entrati in ruolo sono diventati molto meno produttivi, rimanendo da quel momento in poi su un livello di produttività (più) basso.
    2. La produttività come precari era simile a quella come strutturati, cioè quando un precario è diventato RTI, e poi PA, è rimasta la stessa persona di prima.
    3. Nel passaggio da precario a strutturato, è diventato più produttivo, per poi rimanere ad un livello costante tra RTI>PA>PO

    Non abbiamo i dati sui non strutturati, e quindi si tratta di pura deduzione, prolungando all’indietro sull’asse del tempo la curva di cui disponiamo: però la possibilità 2 mi sembra l’unica plausibile. Anche perché se fosse vero la possibilità 1 (quando un precario diventa strutturato, la sua produzione scientifica si abbassa) un ministro dell’università dovrebbe -per fare il bene della scienza italiana- fare una sola cosa: non assumere nessuno in ruolo!

    • francescomariatedesco

      la seconda figuraccia consiste nell’aver spacciato come incontrovertibili dati ciò che più correttamente tu riconduci nell’ambito delle deduzioni. de nicolao, forse pensando che nessuno sarebbe andato a guardare ciò che aveva citato, ha calato la ‘briscola’ (nella sua testa) per tacitare il confronto (e, ripeto, questo è un giochino che a roars spesso fanno). però quella briscola non serviva a una mazza, perché si riferiva a un singolo studio, relativo a un periodo — per di più, mi pare, arbitrario — di soli 4 anni e soprattutto non diceva nulla sui non strutturati. non si può spacciare un dato chiaramente non relativo a non strutturati per un dato sulla produttività dei non strutturati. peraltro il paper citato si riferiva solo alle scienze dure, quindi il cerchio si stringe anche di più. sulle deduzioni, poi, possiamo esercitarci quanto vuoi. ma se non abbiamo dati, sono chiacchiere che hanno una loro legittimità, ma che non sgombrano il campo da dubbi e argomentazioni, come in modo rozzamente positivistico qualcuno vorrebbe fare. peraltro, quanto alle ipotesi, i giovani e precari producono di più e che l’incardinamento porta a ‘sedersi’ (e pour cause!), anche perché iniziano le incombenze didattiche, ‘politiche’, amministrative, etc., nonché anche una certa stanchezza (vista l’età, peraltro, in cui si diventa strutturati, in media).

  3. Vladimir Carli

    Qualche tempo fa frequentavo ROARS ed esprimevo le mie opinioni (probabilmente simili a quelle dell’autore del post) nei commenti. Ogni volta sono stato attaccato e mi è stata sciorinata la solita serie di dati per cui l’universita’ italiana sarebbe la migliore del mondo. La cosa piu’ ignobile è che sono stato spesso e volentieri attaccato da persone che si mantengono rigorosamente anonime perche’, ovviamente, nel mondo della cooptazione baronesca universitaria, non è consentito esprimere la propria opinione. Ricordiamoci sempre che stiamo parlando del sistema universitario che ha coniato l’espressione dispregiativa “battitore libero” per chiunque provi a manifestare un minimo di indipendenza. Dopo qualche tempo sono stato addirittura bannato dal sito di ROARS, proprio dalla persona nella redazione col nome piu’ altisonante, proveniente da una nota famiglia con altissimo tasso di talento universitario. Da allora ho semplicemente lasciato perdere…
    Vorrei anche rispondere al commento di cui sopra. Chiunque abbia vissuto l’universita’ nei tempi in cui il reclutamento ancora esisteva, Sto arrivando! benissimo che l’ipotesi valida è proprio la numero 1. Fin quando si è precari si lavora 20 ore al giorno alla ricerca. Appena si diventa stabili ed inamovibili, si poggia il culo sulla sedia e ci si dedica ad altro, in molti casi alla propria attivita’ libero professionale. Sono vecchi vizi italici…
    Saluti,
    Vladimir

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